Decine di migliaia di donne perderanno la pensione di invalidità civile. Di più: dovranno restituire quanto percepito da dieci anni in qua. È il rischio che corre soprattutto “l’altra metà del cielo”, complice l’orientamento di qualche avvocatura dell’Inps che ha fatto finire il contenzioso in Cassazione con insidie pesanti per l’assistenza agli invalidi.
«Finora», spiega l’avvocato previdenzialista Sante Assennato, «il limite di reddito per ottenere la pensione o l’assegno di invalidità è stato individuale, fissato rispettivamente a 16mila 500 e 4mila 650 euro all’anno a seconda della percentuale di perdita della capacità lavorativa». «Ora», continua, «complice l’orientamento equivoco dell’Inps, che in sede amministrativa riconosce e in sede giudiziaria nega, gli stessi livelli di reddito massimo diventano coniugali». Ma una soglia così, comporterebbe «l’estinzione fisica della coppia». Se l’asticella del reddito fosse rispettivamente fissata per entrambi i coniugi in 4mila e 650 euro per l’assegno, e in 16mila 500 per la pensione, questi «morirebbero di fame prima».
«Per 34 anni», spiega ancora Assennato, «tanto per l’assegno quanto per la pensione gli stanziamenti delle leggi di bilancio dello Stato hanno previsto limiti reddituali personali: una deroga a questa prassi rappresenterebbe la più grave controriforma in materia assistenziale con conseguenze devastanti soprattutto per la donna». Sia la pensione, sia l’assegno di invalidità, infatti, «in un mercato del lavoro a forte prevalenza maschile sono volti alla tutela delle figure più deboli nel momento in cui, per motivi di salute, perdono la capacità di lavorare in maniera significativa: oltre il 74 per cento per l’assegno o del 100 per cento per la pensione.
Ma il balletto dei comunicati dell’Inps e del ministero del Lavoro sembra rappresentare plasticamente la prassi antica dello «scarica barile». Un gioco a passare il cerino per non bruciarsi, rinviando la materia alle decisioni della magistratura. Mercoledì 13 febbraio prossimo, infatti, saranno i giudici della sezione Lavoro della corte di Cassazione a decidere sui livelli di reddito, stante il permanere di un silenzio colpevole sia da parte del ministero sia da parte dell’Inps. Entrambi nei loro pronunciamenti, a partire dal 12 gennaio, richiamano la necessità di una nuova «valutazione», di una «indagine», di una «istruttoria».
FONTE repubblica.it